IL Porto Canale
Ho sempre sentito molto vicina a me la storia complessa del porto di Cagliari. Mio nonno ha lavorato nella ex storica Compagnia lavoratori per 40 anni ed io ne avevo 24 anni e un figlio, quando misi piede per la prima volta al terminal container che finalmente prendeva vita con l’arrivo di Contship, dopo anni di immobilismo e inattività. Ricordo che studiavo all’Università, ma volevo lavorare e conquistarmi il futuro senza sapere che quello portuale è un mondo con meccanismi e dinamiche davvero molto fitti e complessi, estremamente ardui da capire per chi non vive quella realtà.
Recentemente, abbiamo assistito al rischio concreto di licenziamento per oltre 700 lavoratori che lavorano al Porto Canale di Cagliari. Il Terminal contenitori è stato escluso dalle rotte dalla Hapag Lloyd, la principale compagnia navale che operava in porto. Ma sono a rischio anche le linee con il Canada, con il Golfo del Messico, con gli Stati Uniti Occidentali, con il Mediterraneo orientale e l’Egitto, come se si fosse deciso di tagliar fuori la Sardegna dal resto del mondo, alternando anni di profitti seguiti da anni di trascuratezza, legata al mancato sviluppo degli investimenti sulle infrastrutture portuali, avviando un percorso lento di abbandono.
Hapag ha lasciato Cagliari perché le gru del porto canale non sono in grado di operare sulle navi di nuova generazione sempre più grandi che stavano entrando su questa rotta, nulla a che vedere con cicli legati al mercato che nel passato hanno caratterizzato lo scalo. Questo è molto grave, prima di tutto perché l’inadeguatezza dei mezzi per un porto di transhipment, che dovrebbe essere un hub nel mediterraneo con una posizione strategica, pregiudica il futuro commerciale del terminal poiché, anche volendo per esempio sostituire le gru con altre di nuova generazione, i tempi di consegna sono davvero molto lunghi, ciò significa che è inverosimile una soluzione di ripresa che sia fattibile con tempistiche brevi. Un vero peccato perché in passato si era riusciti a superare i vincoli posti da ENAC che riguardavano il cono di atterraggio e che limitavano l’altezza delle gru. Infatti avevano trovato circa 30 milioni di finanziamento a fondo perduto per l’adeguamento delle strutture ma poi tutto è finito in un nulla di fatto a causa di mancati accordi commerciali. A tal proposito, è importante ricordare che il porto industriale è un’infrastruttura che è stata costruita negli anni 80 quindi abbastanza obsoleta. Peraltro in questi giorni sentiamo spesso di parlare di Zes e Zona franca che potrebbero essere illuminanti per il futuro economico commerciale dell’isola e della città, che potrebbero dare un inversione di rotta ad un terminal che rischia di chiudere ma che perdono totalmente significato e tolgono competitività alla Sardegna non essendoci continuità territoriale sia per quanto riguarda i passeggeri, sia per l’assenza di collegamenti nazionali ed internazionali di merci da e per la Sardegna. Investire nelle infrastrutture nella zona franca potrebbe essere una soluzione, seppur non a breve termine. Ma anche la via della Seta e le altre rotte commerciali potevano essere un’occasione di rilancio sopratutto in una città come Cagliari, che per posizione è ideale per i traffici di mezzo mondo. In tutto ciò già due imprese hanno chiuso e mandato a casa i loro dipendenti. In realtà però questa è solo una situazione che già da alcuni anni preannunciava un lento abbandono del porto. Infatti dopo anni di tavoli di trattativa aperti sia in Autorità portuale che al Ministero dei trasporti, il 7 febbraio 2018 si assiste alla pagina finale della storica Compagnia portuale di Cagliari, che verrà dichiarata fallita dal tribunale di Cagliari. I lavoratori avrebbero dovuto essere tutti riassorbiti nell’agenzia di lavoro portuale, una sorta di agenzia interinale fondata dalle imprese operanti nel terminale con la partecipazione dell’Autorità portuale. Ma gran parte di questi lavoratori sono ancora a spasso per un progetto mai davvero decollato nel silenzio generale. Ma, prima del fallimento, ci sono stati circa due anni di trattative continue con l’authority perché si prendessero i provvedimenti necessari per porre rimedio ad una situazione che già nel 2016 contava 800.000 euro di debito della Compagnia portuale, tra cui i Tfr mai versati ai fondi e varie mensilità ordinarie ed aggiuntive mai versate. Una gestione probabilmente troppo leggera in cui sarebbe stata necessaria maggiore vigilanza da parte dell’organo controllore, il cui immobilismo, unito alla totale assenza della politica, ha prolungato l’agonia dei lavoratori e delle rispettive famiglie.
Contship, la società che detiene la concessione del terminal, disse alcune settimane fa di avere perdite in CICT (Cagliari International Container) nel solo anno 2018 di circa 8,78 milioni di euro. Tenendo conto che questa azienda ha sempre pagato gli stipendi regolarmente e che spesso ha aiutato le aziende che vi ruotano intorno a fare lo stesso, quello che non ci si spiega è come mai ci sia stata cosi poca lungimiranza e come mai Cagliari, nonostante la posizione strategica sul Mediterraneo, non venga considerata competitiva come Tangeri o Malta. A pensar male sembrerebbero scelte deliberate, perché l’adeguamento delle strutture alle navi di nuova generazione e la ricerca di nuovi partner commerciali sono temi cosi fondamentali per la crescita e lo sviluppo del porto che non si riesce a comprendere come è possibile che siano stati trascurati e rimandati al momento dell’emergenza dagli attori coinvolti, che avrebbero dovuto a mio avviso agire per tempo insieme, al di là degli schieramenti politici, mettendo in campo competenze tecniche, pretendendo garanzie istituzionali e impegni di investimento in modo da garantire ai Sardi un futuro non solo balneare . Certo è notizia di dieci giorni fa che le perdite sono state coperte, il capitale ricostituito e quindi almeno per ora sono stati scongiurati, o forse solo rimandati, i licenziamenti. Questo è quanto è stato stabilito dall’assemblea dei soci e del CdA della CICT e della Contship, ossia ripianare le perdite e ricostituire il capitale sociale versando ulteriori 4 milioni di euro. Ciò premetterà a CICT di andare avanti sino a quando il capitale sociale si azzererà nuovamente e di rimandare i licenziamenti. Unico assente, come rivela la Presidentessa di CICT Cecilia Battistello, il Cacip (Consorzio Industriale Provinciale) che detiene l’8 per cento di CICT e che, stando alle parole della stessa Battistello, “All’assemblea, come in tante altre, pur convocato legalmente e legittimamente il Cacip non si è presentato”. Peraltro in una nota successiva Il Cacip dichiara di aver chiesto un piano di ristrutturazione aziendale, senza il quale i comuni che fanno parte dello stesso Cacip non potranno assumere alcuna deliberazione su ripiano delle perdite e ricostituzione della propria quota. Resta da capire come mai il consorzio istituito nel 1961, trasformato dalla legge n 317 del 5 ottobre 1991 in ente pubblico economico e che gestisce l’area industriale di Cagliari tra Elmas, Macchiareddu e Sarroch, sembrerebbe scegliere di non partecipare ad assemblee decisive per l’area industriale di Cagliari.
L’incertezza che aleggia sul porto Canale non è un problema solo per i lavoratori direttamente impiegati ma è un disastro per tutta l’economia della Sardegna. Se chi governa non farà il necessario per mantenere attivo il porto canale aperto con un minimo di collegamenti si tornerà indietro con gravi ripercussioni anche sull’indotto.
Per questo occorre una politica che sia sempre vigile, attenta e produttiva a tutti i livelli e non solo quando scoppia l’emergenza. E’ doveroso dare al porto canale un futuro come porto di transhipment e soprattutto che tutte le istituzioni e tutti i politici dell’isola si impegnino perché, a mio avviso, il costo dell’abbandono del terminal è enormemente superiore al costo degli investimenti necessari per tornare ad essere competitivi.
Vorrei chiudere facendo un analisi che porti meno numeri e tecnicismi e più umanità, perché il porto è di quei lavoratori che vivono l’incertezza sul futuro quotidianamente, è fatica e sudore ma anche rabbia, ingiustizia e abusi. È un luogo dove spesso funziona la logica del ricatto quando noti che i lavoratori iniziano ad aver paura di reagire, perdendo coraggio. Eppure, anche se questo fa ribollire il sangue, è comunque comprensibile, perché per tante di quelle persone tornare a casa e spiegare alle loro famiglie che da un momento all’altro non potranno più dar loro l’indispensabile è dura, molto dura.
I lavoratori hanno diritto ad una politica che tenga sempre gli occhi puntati sulle dinamiche portuali, che dia loro giustizia e speranza ma, sopratutto, che non tolga loro mai più la dignità.
Roberta Massoni
Sindacalista
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